Istituto Culturale Ebraico Italiano 

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Conteggio dell'Omer di Shlomo Bekhor

I 49 Giorni

49° GIORNI PER MIGLIORARE LA SALUTE DELL’ANIMA

Introduzione al conteggio dell’Omer
A partire da oggi pubblicherò una riflessione sul significato dell’emozione da rettificare ogni giorno. 

I 49 giorni che intercorrono da Pèssakh a Shevu’òt sono sempre stati un periodo di elevazione spirituale e realizzazione di sé. Ogni sera, dalla seconda notte di Pèssakh al giorno prima di Shevu’òt, contiamo ogni giorno tra queste due festività, per un totale di 49 giorni, sette settimane. Questo periodo è noto come Sefiràt Ha’òmer, “Conteggio dell’Òmer”, poiché inizia dal giorno in cui una misura di òmer di orzo fu offerta nel Sacro Tempio di Gerusalemme come primizia del nuovo raccolto.A livello spirituale, il conteggio rispecchia il viaggio dei nostri antenati nel deserto, che trascorsero questi 49 giorni tra l’Esodo da Pèssakh, fino al Dono della Torà a Shevu’òt come preparazione spirituale e anticipazione di questo grandioso evento.Il Conteggio dell’Òmer anima, in tutta la sua mistica poesia, la nostra vita consentendoci di raggiungere uno stato di appagamento spirituale e affinamento emotivo in 49 semplici, ma profondi passaggi. Ogni giorno inizia con una meditazione e termina con un esercizio, creato per accompagnare la nostra crescita spirituale durante questo periodo propizio. 
PERCHÉ E COME CONTARE L’ÒMER
La Torà scrive: “E tu conterai dal domani dello Shabbàt, dal giorno in cui porterai l’offerta dell’Òmer, ci saranno sette settimane complete e fino al domani della settima settimana conterai cinquanta giorni (Levitico 23, 15 - 16).Questi versetti ci comandano di contare sette settimane dal momento in cui l’Òmer, la nuova offerta di orzo, fu portata nel Santuario, cioè dal sedicesimo di Nissan. Da questo giorno iniziamo il nostro conteggio, ossia dalla seconda notte di Pèssakh (notte del secondo Sèder nella Diaspora), fino a Shevu’òt, il cinquantesimo giorno dopo la primizia di orzo. È una mitzvà per ogni persona contare i giorni dell’Òmer da solo, poiché la Torà afferma: “E conterai per te stesso”. Questa mitzvà è applicabile, anche oggi anche se il Santo Tempio non si erge più e non offriamo più l’Òmer. Il momento esatto per contare l’Òmer inizia dalla notte, poiché il verso afferma che dobbiamo contare sette settimane complete e il conteggio può essere completo solo se cominciamo quando inizia il sedicesimo di Nissàn. Da quando iniziamo a contare l’òmer di notte, continuiamo a contare di notte per tutti i quarantanove giorni dopo la preghiera della sera. Pertanto, ogni sera, prima recitiamo la benedizione di contare l’òmer e poi contiamo, dicendo: “Oggi è il ... giorno dell’Òmer”. Nella prima notte si dice: “Oggi è 1 giorno dell’Ómer” e nella seconda notte si dice: “Oggi sono 2 giorni dell’Òmer… ecc”.Se una persona ha trascurato di contare allora, può contare per tutta la notte; e se ha dimenticato di contare di notte, può contare durante il giorno, ma senza la benedizione. Se uno ha commesso un errore e ha trascurato di contare un giorno, deve continuare a contare ma non recita la benedizione. Tuttavia, se non ricorda se ha contato o meno, può continuare a contare i giorni rimanenti dell’Òmer con una benedizione.La benedizione e il conteggio dovrebbero essere pronunciati in piedi, ma se uno si siede mentre conta, ha comunque adempiuto all’obbligo.
IL SIGNIFICATO ESOTERICO DEL CONTEGGIO DELL’ÒMER
Questo conteggio è intimamente legato all’Albero della Vita (vedi figura). Questo glifo simboleggia tante cose, ma principalmente in sintesi esse sono: gli attributi divini (Amore, Sapienza ecc.), la creazione (i quattro Mondi: Atzilùt - Emanazione; Berià - Creazione; Yetzirà - Formazione e Assiyà - Azione) e anche le varie caratteristiche, fisiche, emotive, spirituali dell’essere umano. Tutti questi aspetti sono ovviamente collegati tra loro, poiché tutta la creazione è in qualche modo “parte di Dio”. Tuttavia qui, per ovvi motivi di spazio, ci soffermeremo solo sull’ultimo aspetto, quello legato agli attributi emotivi dell’anima dell’essere umano.Il periodo dell’Òmer permette a ognuno di noi di connetterci con la nostra anima attraverso una rettificazione delle proprie caratteristiche emozionali.
ALBERO DELLA VITA IN SINTESI
L’albero rappresenta 10 Sefiròt. Esse sono divise in due grandi gruppi principali. Il primo gruppo raccoglie le 3 Sefiròt “Intellettuali” che rappresentato simbolicamente la “testa, il cervello” dell’essere umano: Khokhmà (Sapienza), Binà (Intelligenza) e Da’àt (Conoscenza). Esse sono legate, dal punto di vista dell’uomo, al livello dell’anima chiamata Neshamà.
Il secondo gruppo, le restanti sette, rappresentano le emozioni umane gli attributi emozionali legati, in particolare al 2° livello dell’anima, Ruàkh. Esse sono:1) Khèssed (Amore, Bontà)2) Ghevurà (Forza, Rigore)3) Tifèret (Bellezza, Equilibrio, Armonia)4) Nètzakh (Vittoria, Perseveranza)5) Hod (Splendore, Umiltà) 6) Yessòd (Fondamento, Legame) 7) Malkhùt (Regno, Regalità Organizzazione, Comunicazione) 
Il conteggio dell’Òmer riguarda principalmente queste ultime sette: gli attributi emotivi dell’uomo. Il motivo, in estrema sintesi, è perché il livello dell’anima, Neshamà (il collegamento tra uomo e Dio rappresentato dalle prime 3 Sefiròt) è sempre presente in qualche modo eterno e immutabile, anche se è spesso celato, e non può essere messo in discussione, neanche al nostro livello attuale: il mondo dell’azione.Gli attributi emotivi, invece, almeno a livello di questo mondo dell’azione, possono e spesso devono essere “formati” e rettificati. Essi sono molte volte troppo presenti, a differenza del livello dell’anima chiamato Neshamà, e addirittura in maniera dannosa per il percorso spirituale dell’essere umano, poiché le “passioni” e in generale le emozioni rischiano di comandare e guidare le nostre azioni occultando e dominando il nostro livello intellettuale rappresentato dalle prime tre Sefiròt.(ps. come accennato sopra l’argomento oltre ad essere vastissimo, può essere affrontato sotto vari aspetti, qui per ovvi motivi di spazio e di comprensione ci siamo limitati e abbiamo sintetizzato al massimo, al fine di dare una guida semplice e comprensibile a tutti sul periodo dell’Òmer).
SEFIROT, SETTIMANE E ÒMER. PERCHÉ 49 GIORNI?
Ogni Sefirà dei nostri attributi emotivi rappresenta un aspetto della nostra anima: Khèssed (Amore, Bontà), Ghevurà (Forza, Rigore), Tifèret (Bellezza, Equilibrio, Armonia) ecc. fino a Malkhùt. Tuttavia ogni Sefirà a sua volta contiene tutti gli altri sei aspetti emozionali, ad esempio l’ “aspetto dell’anima” di Hod (Splendore, Umiltà) contiene in sé tutti gli altri sei aspetti: Khèssed (Amore, Bontà), Ghevurà (Forza, Rigore), Tifèret (Bellezza, Equilibrio, Armonia), Nètzakh (Vittoria, Perseveranza), Yessòd (Fondamento, Legame) e Malkhùt (Regno, Regalità Organizzazione, Comunicazione). In più oltre i 6 attributi esiste il settimo che è la sua essenza: ogni volta che si arriva al giorno relativo a quell’attributo stesso (ad esempio Bontà nella Bontà) noi non rettifichiamo solo un aspetto esteriore di esso ma la sua base; ad esempio il primo giorno Khèssed di Khèssed, o dello Splendore nello Splendore Hod (il 33° Giorno dell’Òmer) ecc. così via in ogni giorno dove troviamo l’interclusione del sentimento che è lo stesso della Sefirà.Quindi ogni settimana noi rettifichiamo la Sefirà di quell’aspetto emozionale, ad esempio nella seconda settimana di Ghevurà, Rigore + 6 delle sue sfaccettature in totale 7. Questo per 7 volte.Quindi 7 settimane × 7 = 49 giorni dell’Òmer. 
Pertanto ogni giorno dell’Òmer noi abbiamo una carica dall’Eccelso a migliorare un singolo aspetto del nostro carattere facendo illuminare in questo modo la nostra parte dell’anima corrispondente. Questo percorso non è paragonabile a un rettificazione personale che un singolo può fare da solo, perché nel periodo dell’Omer abbiamo la forza di un comandamento Divino che ci facilita la rettificazione di quella specifica emozione, questo grazie al fatto che nei mondi superiori si illumina questo attributo e questo ci permette di illuminare il nostro attributo di conseguenza.Senza parlare del fatto che è un lavoro di gruppo MONDIALE che tutti insieme lavorano sullo stesso sentimento, dando una carica maggiore di forza di gruppo.
ÒMER, SHAVU’ÒT E DONO DELLA TORÀ. COSA C’ENTRA?Per la dottrina esoterica ebraica l’essere umano per rendere questo mondo una “casa per Hashèm”, rivelando l’esistenza del divino nella materia, non deve necessariamente e nella maggior parte delle situazioni fare o dire cose “sovrannaturali o incredibili”, tipo fare miracoli, profezie, iniziare a volare ecc.Per fortuna invece il percorso di rettificazione di questo mondo iniziato da qualche millennio è molto più facile e allo stesso tempo molto più difficile dal fare miracoli o cose straordinarie. Il VERO percorso esoterico e cabalistico è fondato sul NOSTRO MIGLIORAMENTO INDIVIDUALE nelle piccole e grandi cose. Ad esempio essere genitori più equilibrati (Tifèret, Armonia) magari limitando il nostro RIGORE, GHEVURÀ verso i nostri figli. Oppure essere più determinati (Nètzak) nel perseguire la pace famigliare con il nostro coniuge (Yessòd), o ancora limitare il nostro Amore, Khèssed verso un nostro amico che si approfitta di noi, oppure essere più generosi verso gli altri ecc.
Questo raffinamento individuale ci permetterà di essere persone migliori e quindi di contribuire a rendere questo un mondo migliore e a permettere che Hashèm ci “doni la Torà” ogni anno a SHAVU’ÒT, appunto quando si festeggia “Il Dono della Torà”.Questo percorso dell’Òmer permette ad ognuno di noi di governare e trarre forza dai propri istinti e metterli al servizio della nostra “Testa” e non il contrario.
Questa trasformazione fa parte della rettificazione a livello macrocosmo e prepara il mondo al traguardo finale per la quale è stato creato che è l’era messianica che simbolicamente è rappresentata dal 50° livello che si rivelerà in terra presto nei nostri giorni.Ovviamente ci sono tanti altri aspetti esoterici e cabalistici relativi a questo periodo: la Menorà, il Nome di Dio di 42 lettere e tanto altro ancora. Per approfondire anche questi argomenti è possibile ascoltare una interessantissima lezione di approfondimento sull’argomento dell’Òmer a questo link:https://youtu.be/rcyCbyGa0lY

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1º Giorno 

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CONTEGGIO OMER



Giorno Uno dell’Òmer

Khèssed di Khèssed – AMORE nell’AMORE

16 Nissàn – 


1° giorno: questa sera abbiamo la forza di illuminare il primo sentimento del conteggio dell’Òmer.

Nel prosieguo del conteggio vedremo come ogni Sefirà include altri sette attributi: sei sono sfaccettature, mentre la settima è l’attributo stesso nella sua essenza. Nella prima settimana del conteggio dell’Òmer, l’essenza di Khèssed cade nel primo giorno.

Perciò, oggi, Khèssed di Khèssed – Amore nell’Amore non è una faccia aggiuntiva dell’attributo settimanale, ma è la sua essenza, senza veli. Quindi, in questo primo giorno ci troviamo “nel cuore” dell’AMORE.


Khèssed è l’attributo della benevolenza, vitalità e passione. Sentimento caratterizzato dal desiderio di dare sempre e comunque: sia se il soggetto che riceve è meritevole o meno del nostro amore e a prescindere dai suoi effettivi bisogni. Ad esempio, una madre può arrivare a offrire molti dolci al proprio figlio, anche se per lui non è salutare, poiché lo ama e desidera accontentarlo; oppure un padre che premia il figlio, sempre e comunque, anche di fronte a comportamenti non positivi.

Il sentimento di Khèssed è essenziale per la società, poiché sprona a superare le barriere tra noi e il prossimo. 

Addirittura, in una celebre “discussione”, riportata dal Midràsh, gli angeli sostengono che il mondo si regge sull’attributo divino della giustizia. Dio invece non è di questo “avviso” e “spiega” agli angeli, e a tutti noi, come la creazione è invece fondata sull’amore. Se non fosse per questo primo attributo, infatti, l’uomo, traviato spesso dal suo istinto animalesco innato, non sarebbe meritevole di vivere o di ricevere quello che ha, per questo è scritto (Salmo 89, 3): il mondo è creato sulle basi della bontà (e non rigore).

Khèssed in Khèssed significa risvegliare o meglio illuminare l’essenza della bontà. Vale a dire, trascendere il proprio ego e dare al prossimo anche senza che il ricevente meriti. In questo giorno si vitalizza la capacità di amare con un entusiasmo caloroso ed energico.


Un episodio del patriarca Avrahàm, simbolo dell’amore, può aiutarci a capire meglio:

“Hashèm apparve (ad Avrahàm) presso la piana di Mamrè, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nel momento più caldo del giorno” (Bereshìt 18, 1). I Maestri spiegano che Dio apparve ad Avrahàm nel terzo giorno successivo alla circoncisione, ovvero, nel giorno più doloroso.

Racconta il Midràsh che la tenda di Avrahàm era aperta da tutti e quattro i lati per poter accogliere più agevolmente la gente che si trovava a passare da quelle parti. Rashì spiega che Hashèm aveva reso quel giorno ancora più caldo del solito, affinché il grande patriarca non venisse affaticato dalla presenza di eventuali viandanti. 

Tuttavia, quando Hashèm vide che Avrahàm era molto dispiaciuto dal fatto che non vi era la possibilità di aiutare qualcuno, decise di inviare degli angeli, con sembianze umane, per consentire al nostro patriarca di adempiere alla mitzvà della “Hakhnassàt Horkhìm” (ospitalità). Avrahàm, quindi, improvvisamente alzò gli occhi e vide: ecco, tre uomini idolatri (che si inchinavano sulla sabbia dei loro piedi) stavano in piedi davanti a lui e corse incontro a loro e si prostrò in terra. Nonostante fosse affaticato dai postumi della circoncisione offrì loro da bere, gli fece lavare i piedi, li fece accomodare sotto un albero, gli diede da bere del latte e disse a sua moglie Sara di preparare delle focacce. Come se non bastasse, Avrahàm in persona corse a macellare tre vitelli per poter offrire a ognuno degli ospiti la lingua, la parte migliore dell’animale.

Avrahàm pieno di amore (khèssed) ardeva dal desiderio di aiutare qualcuno, incurante delle gravi condizioni fisiche e del gran caldo. Avrahàm era così pieno di benevolenza che nulla e nessuno avrebbe potuto impedirgli di rivelare la sua infinita passione di aiutare gli altri, con grande entusiasmo e amore, a compiere la grande Mitzvà dell’ospitalità (Khèssed in Khèssed).

In riferimento a questa vicenda nel Talmud è scritto: Disse Rav Yehudà a nome di Rav: “È più importante la mitzvà dell’ospitalità che accogliere la Shekhinà”.


Riflessione: 

sono capace di amare un’altra persona? Il desiderio di amare è fonte di preoccupazione e angoscia, oppure mi dona una sensazione di gioia?


Esercizio: 

dei nostri conoscenti non se la passano bene, hanno bisogno di tanto aiuto. Questo pensiero ci angoscia e ci paralizza nell’agire. Risvegliamo il nostro innato desiderio di amare (khèssed), così da poter agire con entusiasmo e senza troppi calcoli (khèssed di khèssed).

2º Giorno 

Giorno Due dell’Òmer


GHEVURÀ in KHÈSSED – DISCIPLINA nella BONTÀ

17 di Nissàn 


2° giorno: in questa seconda sera dell’Òmer abbiamo la capacità di illuminare Ghevurà in Khèssed - Disciplina nella Bontà.


Khèssed - Bontà - è il sentimento che spinge a dare sempre e comunque. Questo attributo permette di trascendere il proprio ego e aiutare il prossimo con passione.


Ghevurà - Disciplina - è l’attributo del rigore e della forza. Questo sentimento ci permette di disciplinare con forza la nostra vita e il nostro tempo… 


Nel secondo giorno raffiniamo Ghevurà in Khèssed disciplinare l’amore. Ogni attributo, infatti, include tutti gli altri sei, quindi nella seconda sera possiamo rettificare l’amore di Khèssed illuminando Ghevurà presente in essa. Possiamo ottenere questo risultato se limitiamo il desiderio di amare sempre e comunque, il difetto principale di Khèssed: quello di non limitare la bontà e dare sempre a tutti. 

Equilibrare l'amore con la disciplina è un ingrediente vitale di questo sentimento.

L’amore tende a dare senza limiti. La figura che simboleggia questo sentimento è il grande primo patriarca ed ebreo dell’umanità, Abramo. Tuttavia, egli, nella sua grandezza, aveva il limite di non avere la capacità di disciplinare il suo immenso amore. Per questo ha avuto come discendente un personaggio come Ismaele, considerato un malvagio dalla Torà. Ismaele, infatti, è la personificazione di come un amore non equilibrato porta a una educazione sbagliata.


Pertanto, in questo secondo giorno dell’Òmer, occorre riuscire a utilizzare la forza di Ghevurà, per disciplinare il nostro desiderio di dare e subordinarlo a un giudizio: valutare quanto il nostro prossimo merita di ricevere. 

Inoltre, Ghevurà può limitare passioni eccessive che rischiano di svuotarci e farci del male, per aver dato inutilmente troppo sia materialmente, sia emotivamente. A volte è bene, per noi e per chi ci sta vicino, astenersi dal dare. 


Un racconto della Torà può illuminarci:

“I figli di Aronne, Nadàv e Avihù, ciascuno di loro prese il proprio braciere, vi mise dentro il fuoco e l’incenso, e presentò davanti all’Eterno un fuoco estraneo, che il Signore non aveva comandato loro. E il fuoco uscì dal cospetto del Signore che li consumò e morirono davanti all’Eterno” (Vayikrà cap. 10, 1-2).

Perché morirono i figli di Aharòn? La Chassidùt spiega che il peccato dei figli di Aharòn non fu un peccato, nel senso semplice del termine. Nadàv e Avihù erano dei giusti, essi avevano un eccezionale attaccamento e amore verso Hashèm. Essi, in fondo, volevano avvicinarsi a Lui molto più del permesso. Il loro “peccato” fu di lasciare che il loro grande attaccamento verso Dio li portasse al punto in cui, semplicemente, l’anima uscì dal corpo. La loro anima se ne fuggì, per la forte vicinanza e l’intenso desiderio per il Divino. “Poiché avevano presentato un’offerta estranea all’Eterno”, si erano avvicinati così tanto al Santo, benedetto Egli sia, che morirono.

Nadàv e Avihù pieni di passione per Dio (khèssed) non riuscirono a porre un limite (ghevurà) al loro desiderio intenso, tanto da lasciarsi annullare dal loro stesso amore. 

Diversamente da Nadàv e Avihù, Aharòn e gli altri suoi figli, ponendo dei limiti al loro amore per Dio, riuscirono a servirlo con equilibrio (ghevurà in khèssed).


Riflessione: 

riesco a contenere l’amore che può essere dannoso?


Esercizio: 

Viziare i figli può essere profondamente diseducativo e quindi l’opposto del bene. Si può ricevere di più di quanto si merita, ma non troppo. Limitiamo (ghevurà) il nostro desiderio, comprendiamo che per il bene dei figli occorre disciplinare il nostro amore (ghevurà in khèssed).

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3° Giorno

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Giorno Tre dell’Òmer


TIFÈRET in KHÈSSED – COMPASSIONE nella BONTÀ

18 di Nissàn – Lunedì Sera 18 Aprile 


3° giorno: ieri sera abbiamo l’opportunità di illuminare ed equilibrare la prima Sefirà del conteggio dell’Òmer, la BONTÀ di KHÈSSED, tramite il terzo attributo del nostro cuore che è incluso nella bontà, la COMPASSIONE di TIFÈRET.


Khèssed è l’attributo dell’amore che desidera dare sempre e comunque. 

Tale sentimento, se lasciato libero di agire, può essere il risultato di una prospettiva soggettiva che non tiene in considerazione i reali bisogni del prossimo.


Tifèret è l’attributo che dona la capacità di considerare i sentimenti degli altri, quindi di ASCOLTARE e SENTIRE i reali bisogni del prossimo. 


Nel terzo giorno abbiamo la forza aggiuntiva di rettificare il nostro primo sentimento dell’anima, la Bontà, illuminando la Compassione, Tifèret, presente in Khèssed. Per riuscire in questo dobbiamo rivelare la compassione presente nell’attributo di bontà che ci permetteranno di equilibrare e superare il mero desiderio di dare, tipico dell’amore di Khèssed. La compassione di Tifèret, infatti, permette di ottenere un quadro chiaro e obiettivo dei bisogni dell’altro e di conseguenza esprimere un amore più armonioso e utile per il prossimo, invece di un amore che può essere facilmente guidato dal desiderio di dare.


Una storia chassidica può aiutarci a comprendere meglio:

Per molti anni due santi fratelli, il rabbino Elimelech di Lizensk e il rabbino Zushe di Anipoli, vagavano travestiti da mendicanti, di città in città e di villaggio in villaggio, ispirando i loro fratelli con parole di saggezza e incoraggiamento.

Un giorno, verso sera, i due fratelli giungono nella città di Lodmir in una grande e lussuosa dimora. Quindi, bussano alla porta e chiedono al padrone di casa un posto dove pernottare. “Io non gestisco un hotel”, fu la risposta arrabbiata del padrone di casa. “C’è una casa dei poveri vicino alla sinagoga per mendicanti e vagabondi, sono sicuro che non avrete problemi a trovare alloggio lì”. La pesante porta si chiuse e i due santi fratelli Elimelech e Zushe, senza scoraggiarsi, proseguirono nella loro ricerca. Presto si imbattono in un’altra casa il cui residente, lo scriba della città, li accolse e mise a disposizione la sua umile capanna e le sue magre risorse. 

Diversi anni dopo i due fratelli visiteranno nuovamente Lodmir. Questa volta come ospiti ufficiali della comunità, che aveva chiesto che i due famosi maestri venissero per uno Shabbàt a onorare la città con la loro presenza e i loro insegnamenti. Al ricevimento di benvenuto, il ricco signore, Reb Feivel, avvicinandosi a loro gli disse: “Cari Rabbini! Il consiglio comunale mi ha concesso l’onore di ospitarvi durante il vostro soggiorno, Dio è stato generoso con me. Ho già spiegato al vostro cocchiere come trovare la mia residenza”. 

Terminato il raduno, Reb Feivel tornò a casa per preparare il soggiorno dei due grandi rabbini. Ben presto il cocchiere giunge con la carrozza, i cavalli e i bagagli che deposita nelle stanze dei rabbini.

Le ore passano, ma ancora nessun segno dei due ospiti. Allora, il ricco uomo chiede al cocchiere tutto ansioso “Dove sono finiti i due rabbini e come mai non sono ancora arrivati?”. “Non verranno” disse il cocchiere, “il rabbino Elimelech e il rabbino Zushe stanno a casa dello scriba”. 

“Di cosa stai parlando? Sei pazzo vero?” gli grida rabbiosamente Reb Feivel. E appeno terminato di parlare corre subito alla casa dello scriba dove trova i due rabbini davanti al fuoco, mentre consumano una tazza di tè con il loro amico scriba. “Perché mi fate questo?” disse amareggiato il ricco Reb Feivel. “Cosa ho fatto! Perché mi umiliate in questo modo?”. 

I rabbini gli rispondono: “Ma tu ci stai già ospitando! Almeno quella parte di noi che desideri ospitare! L’ultima volta che eravamo qui, ma senza cavalli, cocchiere bagagli e bei vestiti stirati, ci hai allontanati dalla tua porta, quindi tu in realtà non vuoi ospitare noi, ma… il cocchiere, i cavalli e i bagagli. Quelli che al momento stanno godendo della tua ospitalità”.


Impariamo a tenere in considerazione i reali bisogni del prossimo (tifèret) e non lasciarci trascinare solo dai nostri desideri, quando vogliamo essere generosi. 

Non basta dare amore (khèssed), solo quando traiamo un piacere come il ricco Feivel. Invece, imitiamo il semplice scriba che comprendendo i bisogni dei due non esitò ad ospitarli, sia da poveri, sia da ricchi (tifèret in khèssed).


Riflessione:

quando amo qualcuno sono accecato dal mio desiderio di dare o riesco a considerare se il mio dono è positivo anche per il prossimo?


Esercizio:

un genitore, a volte, può essere naturalmente portato a rendere la vita più facile al proprio figlio. Permettergli di avere il meglio, può essere un desiderio irresistibile. Fermiamoci un attimo a riflettere se quello che facciamo è più frutto del nostro piacere di dare, oppure corrisponde alle reali esigenze di nostro figlio. Impariamo a equilibrare (tifèret) il nostro amore (khèssed) in modo da dare ciò di cui lui ha realmente bisogno (tifèret in khèssed) senza causare dei danni.

4º Giorno

Giorno Quattro dell’Òmer

NÈTZAKH in KHÈSSED – DETERMINAZIONE nell’AMORE

19 di Nissàn – mercoledì sera 16 Aprile


4° giorno: questa sera abbiamo la benedizione divina di rettificare il quarto “abito” di Khèssed la Determinazione nell’Amore.

Khèssed è la fonte del sentimento che genera piacere nell’aiutare il prossimo. 

Nètzakh è l’attributo della perseveranza, coerenza, tenacia e determinazione. Sentimenti che donano la forza di credere con continuità in certi ideali e di combattere per essi al fine di portarli a compimento, fino alla vittoria.


Questo giorno ci dona la forza di rettificare Nètzakh in Khèssed, ossia perfezionare il nostro Amore illuminando la tenacia di Nètzakh presente in esso. Nel quarto giorno dell’Òmer dobbiamo coltivare una costante determinazione nell’amare. Una delle peculiarità di Khèssed, infatti, è quella di donare al prossimo con entusiasmo e calore. L’amore è un sentimento vitale e forte che prescinde da ogni calcolo razionale. Sembrerebbe che nulla possa fermare una persona che vuole amare qualcosa o qualcuno. Tuttavia, una cosa esiste! Essa è la mancanza di tenacia e continuità nell’amare. Questo è spiegabile con il fatto che l’attributo dell’amore porta una persona a dare per il PROPRIO piacere di dare. 

Tuttavia, se l’amore viene ostacolato, ad esempio con il rifiuto dell’altro, esso rischia di bloccarsi e inaridirsi, poiché si smette di provare piacere nel dare al prossimo. Pertanto, risulta fondamentale la nostra capacità di perseverare nell’amore, senza farci condizionare da fattori esterni, come gli sbalzi di umore del soggetto che dovrebbe ricevere. Per questo l’attributo di Nètzakh è indispensabile per rendere perpetua e vincente la passione di Khèssed. 


Una storia chassidica può aiutarci a comprendere meglio:

Chaim, allora allievo della yeshivà centrale di Chabàd, come tutti gli allievi delle yeshivòt Chabàd del mondo, dedica le ore del pomeriggio del venerdì alla mitzvà dei Tefillìn. Chaim, assieme ad altri suoi compagni, erano soliti recarsi a Manhattan per visitare con costanza una serie di uffici di “lusso”. Solo in un posto il gruppo si era imbattuto in un “iceberg” irremovibile: un ufficio di avvocati ebrei che contava diversi impiegati, tutti molto impegnati nel loro lavoro, tanto da non curarsi della presenza dei giovani Chabad. Ogni volta che il direttore li vedeva “gironzolare” nell’ufficio li mandava via al più presto, con “elegante antipatia”. Le cose continuarono in questo modo per sei mesi, senza che i giovani si arrendessero. Ogni venerdì, essi continuarono ad andare in quell’ufficio, nella speranza di vedere formarsi una fenditura in quell’”iceberg”. Un venerdì, un venditore ambulante si rivolse a Chaim, mentre stava andando verso la solita destinazione: “Signore mio, ho per lei una cravatta che le starà d’incanto”. “No, grazie”, tagliò corto Chaim. “Io non amo le cravatte”. “No! No!”, insistette l’ambulante. “Lei ha bisogno di una cravatta. Una persona importante, con una camicia bianca come la sua, deve portare una cravatta! Ecco, le faccio lo sconto, ma prenda questa cravatta”. “Mi dispiace, ma io non voglio una cravatta!”, rispose Chaim con tono deciso. L’uomo, però, non era disposto a cambiare idea, finché convinse Chaim di prenderla. 

La storia, però, non era finita. “Signore mio”, disse l’ambulante, “questa cravatta lei la deve indossare veramente. La farà figurare proprio bene!”. Chaim non fece in tempo a fiatare, che l’ambulante gli aveva già sfilato la cravatta di mano e gliela stava mettendo intorno al collo. Dopo di che, il gruppo di giovani compì il loro solito percorso, fino a che, come tutte le settimane, arrivarono al famoso ufficio degli avvocati. 

Appena arrivati, incontrarono il solito direttore che li aveva sempre mandati via. Se non che, quel giorno, il direttore li guardò per un istante in silenzio dopodiché, indicando Chaim, disse: “Tu, vieni con me”. All’interno dell’ufficio, dietro la porta chiusa, il direttore si rivolse a Chaim in modo diretto: “Voglio mettere i Tefillìn”. Dopo aver finito, il direttore disse: “Certo vorrai sapere, cosa mi è successo, all’improvviso!”. Chaim assentì, con un cenno del capo, ammutolito per lo stupore. L’uomo sospirò profondamente e iniziò a spiegare. “Le cose stanno così: ho avuto una serie di problemi a livello personale, per i quali non vedevo via d’uscita. Sentivo bisogno di aiuto, ma non sapevo a chi rivolgermi. Ieri mi è capitato sotto gli occhi uno di quei fogli che lasciate sempre qui, con la foto del Rebbe. Cominciai a pensare che, forse, una personalità religiosa fosse la giusta soluzione per i miei problemi. Alla sera, arrivato a casa, andai a dormire con la testa piena di pensieri. Fu allora che vidi in sogno il Rebbe di Lubàvitch. Il Rebbe mi rivolse un sorriso luminoso e io mi sentii inondato da una sensazione di grande elevazione. Chiesi al Rebbe se poteva aiutarmi e il Rebbe, continuando a sorridermi, mi rispose: ‘Ma io già ti mando, ogni venerdì, un gruppo di miei allievi con i Tefillìn per aiutarti spiritualmente e materialmente!’. Ero imbarazzato. ‘Ma Rebbe’, cercai di districarmi, ‘il loro modo di vestire è così sciatto e trascurato che non riesco neanche ad avvicinarmi a loro. Addirittura, neppure uno indossa la cravatta!’. Allora il Rebbe, con lo stesso sorriso carezzevole sul viso, mi disse: ‘È una cravatta, che vuoi? Va bene. La prossima volta verrà uno con la cravatta!’ A quel punto, mi svegliai. Ora capisci?”. Disse il direttore, cercando di nascondere una lacrima, che gli spuntava dall’angolo dell’occhio, “Quando ti ho visto, per la prima volta con la cravatta, ho capito che non si era trattato di un semplice sogno, ma di una realtà!”.

Alla fine, la tenacia (nètzakh) dei giovani Chabàd nel perseguire l’amorevole proposito (khèssed) di fare adempiere la mitzvà dei Tefillìn, e grazie all’aiuto del Rebbe, riuscì a far raggiungere loro la meta. Da questa storia impariamo come il nostro amore, se ben riposto, non deve arrendersi di fronte alle difficoltà. 

Questo è fattibile poiché l’attributo di khèssed (come tutti gli altri) è incluso di tutte le sei emozioni fondamentali che caratterizzano l’intero periodo dell’Òmer. E questa sera possiamo far brillare khèssed tramite il quarto attributo, che gli aggiunge la Determinazione nell’Amore (nètzakh in khèssed). 


Riflessione:

il mio amare è sempre tenace e costante? Il mio desiderio di dare si affievolisce e si spegne alle prime difficoltà?


Esercizio:

nella vita familiare siamo pieni di amorevoli attenzioni per tutti. Ci sentiamo bene quando doniamo un pensierino. Tuttavia, basta poco, una piccola critica o un comportamento indifferente, per raffreddare il nostro desiderio di dare. 

Cerchiamo sempre di perseverare negli amorevoli propositi, senza farci abbattere per un nonnulla (nètzakh in khèssed).

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5º Giorno

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Giorno Cinque dell’Òmer


HOD in KHÈSSED – SPLENDORE nella BONTÀ

20 di Nissàn - 


5° giorno: stasera abbiamo la forza di illuminare Hod in Khèssed – Splendore nella Bontà.


Khèssed è l’attributo dell’Amore – Bontà che nasce dal provare piacere aiutando il prossimo. Esso rappresenta un’espressione molto forte di se stessi che rischia di sopraffare l’individuo, fino al punto di perdere di vista il prossimo, poiché tutto è subordinato dal desiderio di dare. 


Hod è l’attributo dell’Umiltà che significa anche ringraziamento e splendore.


Illuminare Hod in Khèssed significa far risplendere l’umiltà di Hod presente in Khèssed. Questo permette di purificare l’Amore dagli “agguati” dell’ego. Khèssed, infatti, è un sentimento unidirezionale, che si sposta dall’interno di noi stessi verso l’esterno, indipendentemente dai bisogni di colui che riceve. 

Il Rebbe spiega che vi sono due modi di amare il prossimo. Il primo è quello che scaturisce da un sentimento di orgoglio e di superiorità che nasce dall’idea che si è importanti quindi è giusto aiutare il prossimo. In questo caso l’amore è generato da un senso di orgoglio, l’opposto dell’attributo dell’umiltà di Hod. 

Il secondo tipo di amore, invece, scaturisce da un sentimento opposto: quello di sentirsi inferiore a tutti. Pertanto, ogni persona è considerata, dal soggetto donatore, più meritevole e bisognosa di aiuto e di ricevere. Quest’ultimo tipo di amore è il vero amore illuminato dall’Hod, umiltà, quello che ha caratterizzato l’agire del grande patriarca Abramo, l’amore che abbiamo ricevuto in eredità da lui e dovremmo ispirare ad avvicinare. 


Khèssed e Hod, infatti sono attributi che hanno due direzioni opposte: Khèssed è il NOSTRO desiderio di amare una espressione del nostro IO - ego; mentre Hod è il sentimento dell’umiltà (antitetico all’ego dell’IO) che nasce dalla consapevolezza che ciò che siamo, o abbiamo, è solo il frutto di una volontà superiore. Questa consapevolezza può indirizzare il nostro sentimento di dare verso fini ideali ed esterni, diversi dal mero desiderio scaturito dal nostro IO. L’amore per essere meglio indirizzato deve possedere Hod. 

Quindi, questa sera brilla il quinto attributo di khèssed e, tramite esso, possiamo rettificare l’amore con un elemento essenziale, l’umiltà. In questo modo, acquisiamo la capacità di elevarci al di sopra di noi stessi e riuscire ad amare senza accrescere il nostro ego: un “umile amore” permette di comprendere come la nostra capacità di dare non dipende da un nostro merito, poiché è una qualità che ci viene donata dall’alto, come un regalo. Questa consapevolezza ci consente di rimanere umili nei confronti di una persona che ottiene il nostro aiuto, come quando diamo tzedakà o concediamo un prestito.


Una storia ebraica può aiutarci a comprendere meglio:

Nella città di Cracovia, in Polonia, viveva un ricco ebreo che si chiamava Yosele, famoso per la sua avarizia. I mendicanti e le associazioni locali che si occupavano della raccolta della tzedakà (beneficenza) avevano rinunciato da tempo a bussare alla sua porta per ottenere almeno un contributo simbolico. L’assoluta mancanza di bontà, da parte di Yosele offendeva e disorientava gli ebrei di Cracovia. Dai tempi di Abramo, la carità era stata il segno distintivo del popolo ebraico. Tutti si domandano come poteva una persona, per giunta molto ricca, mostrarsi così indifferente ai bisogni del prossimo? Quindi la gente lo soprannominò Yosele il “Ricco avaro”. 

Gli anni passarono e il ricco divenne vecchio e si ammalò gravemente. Tuttavia, fino all’ultimo rifiutò categoricamente di dare della beneficenza, nonostante le sollecitazioni fatte dai membri della comunità. L’intera città era in fermento con questo ultimo spettacolo di avidità da parte di Yosele. La gente mormorava: “Quanto può abbassarsi un uomo? Anche alla porta della morte, sta accumulando la sua ricchezza, rifiutandosi di condividere le sue benedizioni con i bisognosi”. I funerali di Yosele furono una cosa triste, senza nessun elogio funebre e il suo corpo fu sepolto in un lato alla periferia del cimitero. 

Il seguente giovedì sera, un numero incredibile di persone iniziarono a bussare alla porta del rabbino capo di Cracovia, Yomtov Lipman Heller (1579-1654). Nel giro di un’ora, decine di famiglie vennero a chiedere l’aiuto del rabbino per far fronte alle spese dello Shabbàt. Il rabbino era disorientato! Mai nulla del genere era successo prima in tutti i suoi anni a Cracovia. Perché questa improvvisa piaga della povertà? Il rabbino Heller convocò allora una riunione di emergenza dei membri della comunità, ma non riuscirono a spiegare il fenomeno; allora decisero di fare delle indagini approfondite. Incredibilmente si scoprì che centinaia di famiglie a Cracovia erano sopravvissute fino ad allora, poiché, per qualche misteriosa ragione, i commercianti avevano fatto sempre credito ai poveri della città.

Il rabbino, allora li convocò tutti e gli chiese di sapere cosa stava succedendo. Solo allora venne fuori l’incredibile vera storia del “Ricco avaro”: per anni Yosele aveva sostenuto le centinaia di famiglie povere di Cracovia: ogni settimana i mercanti della città gli presentavano il conto e lui pagava per intero. La sua unica condizione era che tutti dovevano mantenere il segreto, altrimenti non avrebbero più preso un soldo. Il rabbino Yomtov Lipman come tutta la comunità della città erano sconvolti! Quindi il rabbino decise di riparare al torto rendendo i più grandi onori postumi all’anima e all’onore del defunto Yosele: ogni trentesimo giorno dalla sua morte sarebbe divenuto un giorno di digiuno pubblico e tutti si sarebbero dovuti recare al cimitero per chiedere perdono al defunto. 

Lo stesso rabbino elogiò Yosele e ordinò di essere sepolto vicino a lui alla periferia del cimitero e disse: “Senza prenderti alcun merito per le tue azioni (hod), assicurandoti che nessun destinatario della tua generosità (khèssed) dovesse mai vergognarsi davanti a te o sentirsi in debito con te, tu hai adempiuto alla mitzvà della tzedakà (carità) nella sua forma più perfetta (hod in khèssed)”.


Riflessione: 

quando aiutiamo o diamo qualcosa a qualcuno ci sentiamo importanti? Quando amiamo una persona, siamo in grado di accettare un comportamento difforme ai nostri desideri?


Esercizio:

non offriamo un regalo con un sentimento di superiorità (hod), perché occorre essere consapevoli che tutto ciò che abbiano o possiamo fare non dipende dai nostri meriti (hod in khèssed)

6º Giorno 

Giorno Sei dell’Òmer

YESSÒD IN KHÈSSED – UNIONE NELLA BONTÀ

21 di Nissàn- 

(dopo l’uscita delle stelle)

6° giorno: stasera abbiamo la capacità di illuminare Yessòd in Khèssed – Unione nella Bontà.


Khèssed è l’attributo dell’Amore - Bontà - che nasce dal sentimento di sentirsi bene aiutando il prossimo, sempre e comunque.


Yessòd è l’attributo dell’Unione che spinge a cercare e creare dei legami profondi con gli altri.


Oggi abbiamo la forza supplementare di rettificare il primo sentimento dell’anima, l’Amore, illuminando il suo sesto attributo, l’Unione. Yessòd permette al sentimento dell’Amore di rivelare la sua “Essenza”. L’amore è un sentimento che può anche prescindere dall’altro, poiché il piacere di dare, paradossalmente, può contribuire a creare uno stato di autocompiacimento che non permette il maturare di una solida Unione. Ad esempio, quando si cerca di aiutare un amico in difficoltà il nostro desiderio di dare potrebbe ostacolare la realizzazione di un solido legame con lui. Si potrebbe generare in noi un sentimento di importanza e un conseguente senso di supremazia che può causare un distacco verso il nostro amico.

Tuttavia, gli attributi di Yessòd e Khèssed traggono forza da aspetti dell'anima molto simili: Yessòd è mosso dal desiderio di unirsi, per il piacere del nostro IO di socializzare ed essere apprezzato dal prossimo; Khèssed, similmente, il “NOSTRO AMORE”, rappresenta un desiderio dell’IO di realizzarsi e valorizzarsi nel dare.

Pertanto, nel 6° giorno dell’Òmer, Yessòd è un aspetto essenziale di Khèssed. Affinché l’Amore possa essere espresso in maniera ottimale deve essere accompagnato da uno scambio reciproco di interessi e condivisioni. Essere buoni in maniera asociale rende il nostro operato di bontà poco efficace, invece quando la Bontà nasce da un legame, essa si indirizza verso puri ideali di unione, diversi dal mero desiderio scaturito dal nostro IO.


Un brano tratto da HaYòm Yom (30 Adàr 1) del Rebbe può aiutarci a capire meglio: 

Mio padre disse: “Un chassìd crea un ambiente. Se non lo fa, è meglio che controlli attentamente il proprio “bagaglio”, per vedere se presso di lui, tutto è a posto. Il fatto stesso di non riuscire a creare un ambiente, dovrebbe farlo riflettere sul fatto che manca qualcosa. Egli dovrebbe chiedere a se stesso: “Cosa sono qui a fare, in questo mondo se non creo un ambiente?”.

È noto come i chassidìm siano spinti nel loro agire da un grande amore per Hashèm, la Torà le mitzvòt e per il prossimo. Nonostante questo, il Rebbe ci ricorda come “la cartina di tornasole”, per verificare l’efficacia e la genuinità di questo operato, sta nel riuscire a costruire un “ambiente” (yessòd legame solido) che accompagni il nostro agire amorevole (khèssed). Altrimenti, forse, c’è qualcosa che non va in noi stessi: forse troppo attenti a dare, solo per nutrire un proprio desiderio; forse non siamo interessati veramente a concretizzare l’amore in uno sforzo comune per uno scambio reciproco di interessi e condivisioni. 

Solo così il sentimento di dare si può indirizzare verso puri ideali, diversi dal mero desiderio scaturito dal nostro IO (yessòd in khèssed). 


UN AMORE SENZA UN VERO LEGAME È COME UN BEL FIORE CHE NON PROFUMA!


Riflessione: 

quando trasmettiamo amore a qualcuno diamo per scontato che debba essere d'accordo con noi su ogni nostra scelta, oppure i nostri atti di bontà ci portano comunque a socializzare con gli altri? I nostri progetti altruistici verso coloro che amiamo li realizziamo in “perfetta” solitudine?


Esercizio:

nonostante le continue amorevoli attenzioni che rivolgiamo al nostro coniuge, con il tempo, ci accorgiamo che lui o lei reagisce con indifferenza.

Allora proviamo a trasmettere bontà condividendo con il nostro coniuge le decisioni importanti: acquistare qualcosa o decidere dove andare in vacanza… ASSIEME. 

Basiamo il nostro desiderio di dare non solo PER il nostro partner, ma soprattutto CON il nostro partner, così da costruire un rapporto più sano ed equilibrato, grazie a Yessòd in Khèssed.

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7º Giorno 

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Giorno Sette dell’Òmer


MALKHÙT in KHÈSSED – REGALITÀ nella BONTÀ

22 di Nissàn- 


(dopo l’uscita delle stelle )


7° giorno: stasera abbiamo la forza di illuminare Malkhùt in Khèssed – Regalità nella Bontà, l’ultimo aspetto di Khèssed.


Khèssed è vitalità ed entusiasmo, l’attributo dell’Amore - Bontà - che nasce da un sentimento di sentirsi bene aiutando il prossimo con passione.


Malkhùt è l’attributo della Regalità che rappresenta la capacità di comandare, organizzare e dirigere. Tutte qualità che implicano una forte autostima e consapevolezza della propria dignità e delle proprie qualità, come un Re verso i suoi sudditi. In questo attributo troviamo la forza di comunicare e la capacità di imporre la propria personalità e le proprie idee agli altri. 


Illuminare l’aspetto di Malkhùt, presente in Khèssed, permette alla nostra bontà di essere più organizzata, carismatica ed efficace. L’essenza di Khèssed, infatti, è un sentimento di soddisfazione di sé che nasce dal dare ad altri. Tuttavia, quando i nostri tentativi di dare amore sono respinti o poco apprezzati, può manifestarsi un senso di frustrazione che spegne questo entusiasmo. Invece, quando uniamo questo forte sentimento con l’attributo della Regalità e Dignità, l’agire amorevole verso il prossimo ci renderà fieri di noi stessi, SEMPRE. 

Il carisma, che Malkhùt può donare a Khèssed, rende il nostro Amore più consapevole del contributo che può dare in questo mondo.


Una bella storia ebraica può aiutarci a capire meglio: 

Rabbi Glukowski viveva a Toronto, quando un giorno ha ricevuto una telefonata da uno sconosciuto. Si trattava di un Ebreo il cui figlio, che chiameremo Sheldon, era entrato a far parte di una setta chiamata Hari Krishna e da quel momento nessuno aveva più avuto notizia del ragazzo. Il padre disse che suo figlio stava a Toronto, non lontano dal luogo di lavoro del rabbino. Rabbi Glukowski sentì di dover accettare la sfida. 

Trovato il luogo, dopo una lunga attesa, Rabbi Glukowski riesce a parlare con il ragazzo. “Ciao Sheldon! Tuo padre mi ha chiamato, poiché è molto preoccupato”. “E allora, cosa vuole che faccia?”, il Rav gli rispose: “Vieni a casa mia questo Shabbàt e poi io potrò dire a tuo padre che ti ho visto per un giorno intero e che non si deve preoccupare. Che ne dici?”. La porta si aprì e uscì fuori un giovane esile con i capelli rasati che indossava una tunica arancione e dei sandali. “Sono pronto”, disse. 

Durante il pasto dello Shabbàt, Rabbi Glukowski si accorse presto che tutte le parole di Torà, che era solito dire a tavola, non riuscivano a toccare Sheldon. Allora provò a raccontare una storia… ma nessuna reazione, niente da fare. Alla fine del pasto tutti andarono a dormire. Durante la notte, Rabbi Glukowski fu svegliato da un rumore e si alzò per dare un’occhiata. Con suo grande stupore vide Sheldon che faceva degli inchini verso una statuina, che evidentemente aveva portato con sé, cantando un mantra monotono. Per il rabbino questo era troppo da sopportare! Lui non aveva mai visto un Ebreo adorare un idolo e certamente non voleva vederlo proprio qui, in casa sua! Lasciare che continuasse era fuori questione! Così, Rabbi Glukowski parlò tutta la notte con lui. L’indomani, il rabbino era uno straccio e dopo lo Shabbàt, Sheldon andò via. 

Parecchi anni più tardi, Rabbi Glukowski morì e centinaia di persone vennero a confortare la famiglia e a lodare il defunto. Tra loro c’era anche un uomo esile, di mezza età, che nessuno sembrava conoscere. Si avvicinò ai famigliari in lutto e disse: “Quando ho sentito che vostro padre era morto, mi sono sentito in obbligo di venire. Non mi riconoscete? Sono stato a casa vostra circa quindici anni fa, per uno Shabbàt...”. Raccontò loro come in quello Shabbàt avesse avuto modo di cominciare a pensare, per la prima volta nella sua vita, seriamente alla sua anima ebraica. In seguito decise di approfondire la cosa, andando a studiare in una yeshivà.

“Sapete cosa è stato?” concluse il suo racconto, “Sapete cosa mi ha davvero colpito di vostro padre? Fu il suo amore. Non avevo mai visto un amore così incondizionato in tutta la mia vita. Questo fu ciò che mi fece cambiare idea”.

Rabbi Glukowski ben consapevole del suo ruolo del mondo non si perse d’animo di fronte a una situazione straordinaria e difficile. Il Rabbi riuscì ad aggiungere così tanta regalità (malkhùt) al suo amore (khèssed) da salvare un’anima ebraica che si era persa. Grazie a Malkhùt in Khèssed. 


Esercizio:

non riusciamo ad aiutare gli altri perché la nostra timidezza ci blocca? Se qualcuno ha bisogno di noi non interveniamo per paura di sbagliare?


Esercizio:

nel lavoro tendiamo ad essere molto premurosi verso i colleghi. Spesso ci sobbarchiamo di mansioni che non ci competono e ci sentiamo abbattuti e frustrati. Cerchiamo di trovare un aspetto del nostro agire generoso che ci renda più soddisfatti e dignitosi di noi stessi.

***


8º Giorno 

Giorno Otto dell’Òmer


KHÈSSED in GHEVURÀ – BONTÀ nella DISCIPLINA

23 di Nissàn – Martedì Sera 30 Aprile

(dopo l’uscita delle stelle dalle 20.53 a Milano) 


8° giorno: stasera iniziamo la seconda settimana di questo percorso di sette settimane dell’Òmer, in cui saliamo di un piano per dedicarci a rettificare il nostro rigore e disciplina, iniziando con Khèssed in Ghevurà – Bontà nella Disciplina.


Ghevurà - Disciplina - è l'attributo che permette di dirigere la forza/potenza dell’anima in due direzioni: verso l’interno per vincere gli istinti e capire i limiti umani; verso l’esterno per consentire di giudicare e relazionarsi con gli altri sulla base dei loro presunti meriti e qualità.


Khèssed - Bontà - è l’attributo della passione, vitalità e amore che consente di dare al prossimo e fare del bene.


Questo giorno ci dona la forza di illuminare Khèssed - l’amore, presente in Ghevurà. Oggi possiamo fare in modo che il nostro giudizio, con cui si valuta se il ricevente è meritevole o meno, è mitigato dall’amore di Khèssed che spinge sempre a donare al prossimo. Inoltre, verso sé stessi la benevolenza rende meno severi, perché la severità eccessiva può creare danni. 

In generale, Khèssed rende l’esercizio del rigore uno strumento finalizzato a migliorare sé stessi e il prossimo evitando che il rigore diventi uno strumento finalizzato solamente per punire qualcuno.


Una disciplina senza il calore di khèssed rischia di essere un ordine superficiale che non viene dal cuore. Come dice il Talmud: 

SOLO LE PAROLE CHE PROVENGONO DAL CUORE ENTRANO NEL CUORE!


L’episodio del diluvio, come commentato dall’Alter Rebbe, nel Torà Or e dal Rebbe (nel Maimonide I del “Re Messia”) può aiutarci a comprendere:

se Hashèm avesse voluto semplicemente punire il genere umano con il diluvio, per il profondo stato di degrado in cui era precipitato, avrebbe potuto scegliere infinite modalità. La scelta del diluvio ha una valenza simbolica tale che ci porta a pensare che il fine di Hashèm non fosse quello di castigare gli uomini dell’epoca.

I quaranta giorni del diluvio corrispondono ai quaranta seìm (unità di misura dei liquidi) che contiene un mikvé, il quale ha lo scopo di ripulire l’uomo dalle sue componenti negative attraverso l’immersione completa in esso. Così, Hashèm ha fatto un atto di rigore mandando il diluvio (ghevurà), mitigato dalla bontà (khèssed) al fine di purificare il mondo.

Come quando un padre punisce il figlio non per impulso, ma per educarlo, solo allora è un rigore di amore (khèssed in ghevurà).


Riflessione: 

se vediamo qualcuno in difficoltà ci limitiamo a giudicarlo o cerchiamo di fare qualcosa per lui? La nostra severità prevale sempre, oppure riusciamo a essere affettuosi con i nostri cari in particolare anche se delle volte non lo meritano? 


Esercizio:

con nostro figlio abbiamo spesso un atteggiamento distaccato e severo. Giustifichiamo il nostro comportamento dicendoci che lo facciamo per il suo bene. Riflettiamo e cerchiamo di risvegliare l’amore innato di ogni padre per suo figlio, anche quando dovremmo essere solo rigorosi con lui. Un amore disciplinato ci renderà padri migliori (Khèssed in ghevurà).

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8º Giorno 

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Giorno Otto dell’Òmer


KHÈSSED in GHEVURÀ – BONTÀ nella DISCIPLINA

23 di Nissàn –

(dopo l’uscita delle stelle ) 


8° giorno: stasera iniziamo la seconda settimana di questo percorso di sette settimane dell’Òmer, in cui saliamo di un piano per dedicarci a rettificare il nostro rigore e disciplina, iniziando con Khèssed in Ghevurà – Bontà nella Disciplina.


Ghevurà - Disciplina - è l'attributo che permette di dirigere la forza/potenza dell’anima in due direzioni: verso l’interno per vincere gli istinti e capire i limiti umani; verso l’esterno per consentire di giudicare e relazionarsi con gli altri sulla base dei loro presunti meriti e qualità.


Khèssed - Bontà - è l’attributo della passione, vitalità e amore che consente di dare al prossimo e fare del bene.


Questo giorno ci dona la forza di illuminare Khèssed - l’amore, presente in Ghevurà. Oggi possiamo fare in modo che il nostro giudizio, con cui si valuta se il ricevente è meritevole o meno, è mitigato dall’amore di Khèssed che spinge sempre a donare al prossimo. Inoltre, verso sé stessi la benevolenza rende meno severi, perché la severità eccessiva può creare danni. 

In generale, Khèssed rende l’esercizio del rigore uno strumento finalizzato a migliorare sé stessi e il prossimo evitando che il rigore diventi uno strumento finalizzato solamente per punire qualcuno.


Una disciplina senza il calore di khèssed rischia di essere un ordine superficiale che non viene dal cuore. Come dice il Talmud: 

SOLO LE PAROLE CHE PROVENGONO DAL CUORE ENTRANO NEL CUORE!


L’episodio del diluvio, come commentato dall’Alter Rebbe, nel Torà Or e dal Rebbe (nel Maimonide I del “Re Messia”) può aiutarci a comprendere:

se Hashèm avesse voluto semplicemente punire il genere umano con il diluvio, per il profondo stato di degrado in cui era precipitato, avrebbe potuto scegliere infinite modalità. La scelta del diluvio ha una valenza simbolica tale che ci porta a pensare che il fine di Hashèm non fosse quello di castigare gli uomini dell’epoca.

I quaranta giorni del diluvio corrispondono ai quaranta seìm (unità di misura dei liquidi) che contiene un mikvé, il quale ha lo scopo di ripulire l’uomo dalle sue componenti negative attraverso l’immersione completa in esso. Così, Hashèm ha fatto un atto di rigore mandando il diluvio (ghevurà), mitigato dalla bontà (khèssed) al fine di purificare il mondo.

Come quando un padre punisce il figlio non per impulso, ma per educarlo, solo allora è un rigore di amore (khèssed in ghevurà).


Riflessione: 

se vediamo qualcuno in difficoltà ci limitiamo a giudicarlo o cerchiamo di fare qualcosa per lui? La nostra severità prevale sempre, oppure riusciamo a essere affettuosi con i nostri cari in particolare anche se delle volte non lo meritano? 


Esercizio:

con nostro figlio abbiamo spesso un atteggiamento distaccato e severo. Giustifichiamo il nostro comportamento dicendoci che lo facciamo per il suo bene. Riflettiamo e cerchiamo di risvegliare l’amore innato di ogni padre per suo figlio, anche quando dovremmo essere solo rigorosi con lui. Un amore disciplinato ci renderà padri migliori (Khèssed in ghevurà).

9º Giorno 

Giorno Nove dell’Òmer

Una Settimana e Due Giorni

GHEVURÀ di GHEVURÀ – RIGORE nel RIGORE

24 di Nissàn- lunedì sera 21 Aprile

(dopo l’uscita delle stelle dalle 20.53 a Milano)


9° giorno: questa sera abbiamo la forza e il merito di illuminare GHEVURÀ di GHEVURÀ – RIGORE NEL RIGORE.


Ogni Sefirà include sette attributi: sei sono sfaccettature, mentre il settimo è l’attributo stesso nella sua essenza. 

Perciò, il nono giorno dell’Òmer, Ghevurà di Ghevurà, non è una sfaccettatura aggiuntiva dell’attributo settimanale, ma è la sua essenza, senza veli. Quindi, in questo giorno ci troviamo “nel cuore” del RIGORE.


Ghevurà - Disciplina - è l’attributo che permette di dirigere la forza/potenza dell’anima in due direzioni: verso l’interno per vincere gli istinti e giudicare i propri limiti; verso l’esterno consente di giudicare e relazionarsi con gli altri sulla base dei loro presunti meriti e qualità.


Occorre tener presente che vi sono due livelli dell’anima: quello spirituale e quello “animale”. Entrambi hanno i 49 attributi da rettificare in aspetti molto diversi tra loro. Tuttavia, il nostro percorso si focalizza sulla seconda anima più bassa e i suoi attributi “animaleschi”.


Illuminare l’aspetto di Ghevurà presente in Khèssed dal punto di vista dell’anima “animale”, significa permette di raffinare l’essenza di questo secondo sentimento o sefirà: disciplina, rigore, ordine e valutazione. Fare brillare l’essenza propria di Ghevurà significa, infatti non essere disordinati, avere un programma della giornata, capire il significato della vita giorno per giorno, istante per istante. Quando si vive secondo la Torà si acquisisce la consapevolezza che ogni momento della propria vita ha un significato profondo, poiché è in realtà finalizzato ad attuare la missione che ognuno deve compiere. Come testimonia la Torà, Avrahàm, il primo ebreo della storia, non aveva trascorso un giorno della vita senza averlo riempito della propria missione in questo mondo. Così, anche Avrahàm, come tutti i grandi giusti, era molto organizzato in tutto ciò che faceva senza sprecare un secondo della propria esistenza.


Dal punto di vista dell’anima “spirituale”, invece, la Sefirà di Ghevurà è intimamente legata al concetto di “Timore di Dio”, ovvero la consapevolezza che non siamo mai soli, poiché Dio, in ogni momento e istante della giornata, vede e giudica quello che facciamo o meno. Pur essendo questo un aspetto essenziale per il cammino spirituale di ognuno di noi, esso non è facile da raggiungere e soprattutto da mantenere; poiché spesso quello che ci preoccupa è il timore degli altri esseri umani, amici, familiari ecc. Non a caso il Talmud cita un insegnamento dal grande maestro Rabbi Yokhanàn ben Zakai che dice: “Possa il timore di Dio essere almeno uguale al timore nei confronti degli uomini”. 


Una storia chassidica può aiutare a comprendere meglio il concetto del “Timor di Dio”:

Il Rebbe Rashàb, il 5° Rebbe di Lubàvitch, aveva l’usanza di kasherizzare (purificare) lui stesso gli utensili per la Pèssakh, utilizzando due botti piene d’acqua bollente. Un giorno, mentre stava kasherizzando degli utensili, si accorse che una delle botti perdeva una gran quantità d’acqua che scendeva ai vicini del piano di sotto. Sua moglie e i suoi familiari iniziarono a preoccuparsi delle persone che stavano in basso e con insistenza chiedevano di fare qualcosa subito. Allora il Rebbe, con perfetto acume chassidico, esclamò “Strano! Ci si preoccupa sempre molto di quello ‘in basso’, ma molto meno di ‘Quello che sta in Alto’ “ (Hashèm).


Riflessione:

nel lavoro riesco a dare la giusta priorità alle cose senza disperdermi in piccolezze? Il mio tempo è utilizzato in modo efficiente? Quando combino qualcosa che non va bene, la mia prima preoccupazione è capire SOLO se qualche persona mi ha visto?


Esercizio: 

scegliamo le cinque cose più importanti che dobbiamo realizzare in questo giorno. Verifichiamo se siamo riusciti a realizzarle senza esserci fatti distrarre da cose futili.

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10º Giorno 

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Giorno Dieci dell’Òmer

(1 settimana e 3 giorni)

TIFERET in GHEVURÀ – COMPASSIONE nella DISCIPLINA

25 di Nissàn- martedì sera 22 Aprile

(dopo l’uscita delle stelle dalle 20.54 a Milano)

10° giorno: questa sera abbiamo il privilegio di accendere l’attributo della Compassione nella Disciplina.

Ghevurà, oltre alla disciplina e al rigore, dona la facoltà della meritocrazia: la forza di premiare chi, senza ricorrere alla generosità altrui, merita unicamente sulle base delle proprie capacità. 

Tifèret è l’attributo della compassione che rende sensibili ai bisogni del prossimo superando il proprio IO. 

In ogni sentimento della settimana sono compresi gli altri sei attributi “emotivi”, rappresentati dalle sette Sefiròt. Tuttavia, questo è solo l’aspetto, per così dire, “statico” degli attributi, poiché tale caratteristica è già presente nella creazione stessa dell’uomo e di questo mondo del tikkùn (rettificazione), dove tutti gli attributi sono inclusi tra di loro. Il nostro compito, quindi, è quello di sfruttare la presenza di ogni attributo giornaliero (oggi Tifèret) dentro il sentimento dominante della settimana (Ghevurà) per poter “correggere” un possibile lato negativo del sentimento settimanale.

Inoltre, durante questo periodo, ogni giorno brilla per 24 ore una determinata sefirà (una delle 49 sfaccettature) nel mondo e questo ci consente di fare brillare il sentimento corrispondente che è nel nostro cuore in maniera da equilibrarlo.


Pertanto oggi, nel decimo giorno, ove l’attributo di Tifèret/compassione è incluso dentro il rigore, abbiamo la forza aggiuntiva per correggere il nostro rigore con le qualità della compassione. Concretamente, significa avere il giorno propizio per mettere alla prova il nostro sistema di regole e senso della disciplina, quando esse entrano in contatto con quelle di un’altra persona e del suo differente ordine di regole e bisogni.

Come dice il Talmùd: ogni persona ha una faccia diversa dall’altra e, di conseguenza, ha una differente opinione sulle regole da seguire in una determinata situazione. Se la mia disciplina ignora altri punti di vista e impone al prossimo un ordine oggettivo, questa rischia di divenire un atteggiamento DITTATORIALE.

Invece, una disciplina equilibrata deve adattarsi a un ordine che può essere diverso dal nostro personale. La compassione di Tifèret bilancia il rigore di Ghevurà e lo rende capace di prendere in considerazione e rispettare DOTTRINE, PUNTI DI VISTA ed esigenze ALTRUI.


Una storia chassidica può farci comprendere meglio: 

In gioventù il secondo Rebbe di Lubàvitch DovBer, viveva nella stessa casa di suo padre, il rabbino Shneur Zalman. Il Rebbe DovBer e la sua famiglia vivevano nell’appartamento al piano terra e il rabbino Shneur Zalman abitava al secondo piano. Una notte, il figlio piccolo del Rebbe DovBer cadde dalla sua culla, mentre il Rebbe era profondamente assorto nei suoi studi. Il Rebbe DovBer non sentì nulla! Ma, il rabbino Shneur Zalman, anch’esso immerso nello studio nella sua stanza al secondo piano, udì le grida del bambino, quindi scese al piano di sotto e lo sollevò dal pavimento. Poi, solo dopo aver calmato il piccolo, il Rebbe lo rimise nella culla e lo fece riaddormentare. Successivamente, Rabbi Shneur Zalman ammonì suo figlio: “Non importa quanto siano elevati i tuoi studi, non devi mai mancare di sentire il pianto di un bambino”. 

Il Rebbe di Lubàvitch raccontò questa storia a un raduno di attivisti della comunità nel 1962. 

“Per me”, disse il Rebbe, “questa storia caratterizza l’approccio dei Chabad-Lubàvitch: nonostante tutta l’enfasi sull’auto affinamento e il servizio personale dell’Onnipotente, si deve sempre riuscire a sentire il ‘pianto di un bambino’. Questo è applicabile ancora di più oggi: quando tanti bambini di tutte le età sono caduti ‘fuori dalla culla’ della loro eredità; quando tanti giovani cercano dei valori per dare un senso alla vita e il grido delle loro anime giunge fino a noi. Noi, quindi, dobbiamo avere la sensibilità di ascoltare queste grida e di rispondere ad esse con le nostre preghiere, i nostri studi e fare tutto ciò che è in nostro potere per riportare queste anime e questi giovani nella culla della loro eredità”. 

Anche la disciplina (ghevurà) nel servizio divino, per quanto importante ed elevata sia, non deve farci perdere di vista il prossimo che “cade dalla culla” (tifèret). La disciplina, anche quella con i più alti e nobili fini, deve prendere in considerazione le altrui esigenze (tifèret in ghevurà).


Riflessione:

dopo aver programmato la mia giornata, sono in grado di modificare la scaletta che mi ero fatto per andare incontro alle esigenze di un collega? Capisco che in casa non può esserci solo la mia scala di valori?


Esercizio:

proviamo a rettificare la nostra disciplina (ghevurà) verso i componenti della nostra famiglia, affinché essa rispecchi i bisogni di tutti (tifèret). Così da creare una diversa gerarchia di regole (tifèret in ghevurà).

11ºGiorno

Giorno Undici dell’Òmer

1 settimana e 4 giorni

NETZAKH in GHEVURÀ – DETERMINAZIONE nella DISCIPLINA

26 di Nissàn- mercoledì sera 23 Aprile

(dopo l’uscita delle stelle dalle 20.55 a Milano)


11° giorno: questa sera Dio ci dà la forza di illuminare l’attributo della DETERMINAZIONE nella Disciplina.


Ghevurà è l'attributo dominante della seconda settimana. In questi giorni abbiamo spiegato il significato di Ghevurà (disciplina e rigore) e ora siamo arrivati alla quarta sfaccettatura di questo sentimento.


Nètzakh è l'attributo della perseveranza, coerenza, tenacia e determinazione. Questi sentimenti ci donano la forza di credere con continuità nei propri ideali, combattere per essi e portarli a compimento.


In questo undicesimo giorno abbiamo una carica che ci aiuta a cambiare ogni nostro vizio. Oggi, possiamo far brillare la Determinazione esistente nel Rigore, per poter bilanciare Ghevurà che, se non è illuminata dalla tenacia e determinazione, può risultare poco efficace: tutti noi possiamo cambiare la nostra natura innata ma, per fare questo, serve MOLTA DETERMINAZIONE.


Un esempio di Perseveranza nella Disciplina lo possiamo trovare nella chassidùt che insegna come le nostre esigenze e abitudini, anche quelle consentite dalla Torà, possono impedirci di migliorare. Ad esempio, una persona pigra e con problemi di peso può esercitare il suo Nètzakh in Ghevurà inaugurando, con determinazione, un nuovo regime di vita più salutare. Magari fondato su frutta, verdure e attività fisica quotidiana e non solo astenendosi dal mangiare alimenti particolarmente grassi e zuccherosi. L’uomo ha il dovere, secondo la Torà, di salvaguardare la propria salute e il proprio corpo e di porre dei limiti anche alle cose che sono permesse se sono dannose al corpo. Il Maimonide spiega molto bene, nelle leggi di Deòt (capitolo quarto e quinto), come mangiare, quando mangiare, di quali alimenti è meglio nutrirsi, in che ordine e tanto di più…

Quando ci si accorge che il “nostro cuore” desidera, oltre misura, piaceri materiali (anche se permessi), occorre frenarsi e trattenersi dal soddisfarli il più possibile, per “santificare” se stessi. I chassidìm dicono: “Ciò che è vietato, è SICURAMENTE vietato; mentre ciò che è permesso, non è fondamentale”. 

Solo la TENACIA di Nètzakh ci rende constanti nel rispettare una giusta disciplina.


Una bella storia chassidica può aiutarci a comprendere meglio:

A casa dell’Admòr HaZakèn (primo Rebbe di Lubàvitch), un giorno arrivò un ospite molto importante. Ognuno volle partecipare in qualche modo ai preparativi in onore dell’ospite e così i lavori vennero divisi. Solo una cosa dimenticarono di stabilire: chi avrebbe salato le pietanze. Durante i preparativi, ognuno si ricordò che bisognava aggiungere il sale, quindi, per il grande desiderio di fare del proprio meglio per l’ospite, ognuno pensò bene di prendersi quel compito, senza avvisare gli altri. Quando le pietanze furono servite in tavola, l’Admòr HaZakèn le mangiò come al solito, mentre l’ospite, al primo assaggio, allontanò subito il piatto. Il Rebbe gli chiese perché non mangiasse e, dopo che l’ospite rispose che era tutto troppo salato, disse l’Admòr HaZakèn: “Quando ero ancora giovane a Mèzritch, dal mio maestro, lavorai su me stesso in modo da non sentire il sapore nel cibo”.

Per noi è impossibile arrivare ha un livello di raffinamento del nostro corpo così elevato, però possiamo imparare da questa storia come l’Admòr HaZakèn ha lavorato secondo il suo livello molto elevato, ed è riuscito con tenacia (nètzakh) a disciplinare se stesso (ghevurà) anche nei minimi dettagli, fino al punto da non sentire il corpo, “ma solo l’anima che risplende in esso” (Likuté Sikhòt).


Riflessione: 

ho difficoltà ad applicare su me stesso con costanza e tenacia le cose che ritengo giuste, senza ricadere nei miei vizi?


Esercizio:

individuiamo del tempo per migliorare noi stessi ogni momento del giorno, nonostante i tanti impegni e le tante distrazioni.

Il Rebbe di Lubàvitch sia quando camminava per andare al suo ufficio e sia quando era in macchina, nonostante gli innumerevoli impegni a livello mondiale, non perdeva mai l'occasione per studiare un brano del Tanàkh o fare una miztvà in ogni istante libero. Questa è la chiave dell’auto affinamento e del successo nel lavoro, nell’educazione...

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12° Giorno

Giorno dodici dell’Òmer

1 settimana e 5 giorni

HOD di GHEVURÀ – UMILTÀ nella DISCIPLINA

27 di Nissàn – giovedì sera 24 Aprile 

(dopo l’uscita delle stelle dalle 20.55 a Milano)


12° giorno: questa sera la Torà ci dona la forza di illuminare l’attributo dell’Umiltà nella Disciplina.


Ghevurà è l’attributo della disciplina, della forza, del rigore e del giudizio.


Hod è l’attributo dell’umiltà che permette di rendere piccolo l’ego umano, grazie alla consapevolezza che tutto ciò che abbiamo o siamo è un dono concesso da Dio.


In questo dodicesimo giorno abbiamo una forza speciale per illuminare l’Umiltà presente nell’attributo del Rigore, al fine di bilanciare Ghevurà/disciplina e farla diventare un modo di vivere ponderato ed efficiente e non lo sfogo del nostro ego.


Se la disciplina non è accompagnata da una introspezione sulle sue reali motivazioni, rischia di essere originata dal proprio ego, pertanto diventa sterile, poiché scaturisce da sentimenti e stati d’animo mutevoli, tipici dell’ego umano, che possono sfociare in una disciplina isterica.

Ad esempio, l’ideologia nazista possedeva un codice di valori ferrei che i suoi seguaci seguivano con grande disciplina, ma questo era solo l’espressione del loro ego e della follia del loro capo.


Perciò in questo giorno dell’Òmer abbiamo la possibilità di diventare capaci di avere un’etica equilibrata o giudicare gli altri, senza essere visti come persone che vogliono imporre la PROPRIA disciplina, sempre e comunque. 

Inoltre, se agiamo con umiltà (hod) eviteremo di creare degli oppositori di fronte a noi: ad esempio nel lavoro, con gli amici ecc.


Una storia tratta dal Talmud (Ta’anìt 20a) può aiutarci a comprendere meglio:

Un giorno il grande maestro rabbì El’azàr, figlio di rabbì Shim’òn, mentre cavalcava il suo asino lungo un fiume, rifletteva tra sé di come fosse orgoglioso e contento di aver studiato molta Torà. A un certo punto, lungo la strada, un uomo con un brutto aspetto lo saluta rispettosamente. Tuttavia, Rabbì El’azàr, non solo non rispose al saluto, ma esclamò “Forse che tutti gli abitanti della tua città sono brutti come te?”. 

L’uomo prontamente gli rispose: “Non lo so, ma vai dall’Artista che mi ha fatto (Hashèm) e digli: come è brutta l’opera della tua creazione!”. Allora, rabbì El’azàr comprese subito di aver sbagliato, quindi scese dall’asino e si prostrò davanti all’uomo e gli disse: “Ho peccato nei tuoi confronti, ti prego di perdonarmi!”. L’uomo gli rispose: “Non ti perdonerò fino a quando non andrai dall’Artista che mi ha fatto e gli dirai: ‘Come è brutta l’opera che hai creato!’”. Rabbì El’azàr, nell’ulteriore tentativo di farsi perdonare, inseguì l’uomo fino a quando non arrivò alla sua città. Gli abitanti del posto accolsero e salutarono con tutti gli onori il grande Maestro, ma l’uomo prontamente li rimproverò dicendogli: “Perché chiamate questo uomo Maestro? Se lo considerate un Maestro speriamo che non ve ne siano molti come lui in Israèl”. Dato che gli abitanti della città, non comprendevano il motivo del suo rimprovero, il brutto uomo spiegò cosa gli aveva detto poco prima rabbì El’azàr. Nonostante questo, gli abitanti gli chiesero comunque di perdonarlo, poiché era pur sempre un grande studioso della Torà. Allora il brutto uomo disse: “Solo per voi lo perdono, ma a patto che non si comporti più così (con arroganza)”.

Conclude il Talmud che da questa storia impariamo a essere sempre malleabili con le persone, come una canna di bambù, e non rigidi o arroganti come un grande cedro. Quando si è elastici si riesce ad adattarsi a tutte le situazioni. Quando si è rigidi e scontrosi si rischia di mal interpretare una persona solo per il suo aspetto esteriore. 


Questa storia fa capire come rabbì El’azàr aveva un codice etico rigoroso (ghevurà), ma per un attimo di ambizione, generata dalla consapevolezza di essere un grande studioso, ha mancato di umiltà (hod) e ha giudicato superficialmente, facendo un grave errore.

Disciplina (ghevurà) senza umiltà (hod) può essere falsa e creare gravi danni!


Riflessione:

ho difficoltà a far sì che i miei giudizi verso il prossimo non siano solo frutto del mio ego? Impongo agli altri le mie regole in modo aggressivo, oppure riesco a essere pacato anche nel rigore? 


Esercizio:

nell’educare i figli occorre sempre accertarsi che i rimproveri fatti o le regole imposte non siano una manifestazione dell’ego. Addolciamo le regole che vogliamo impartire (ghevurà) accompagnandole con l’umiltà (hod).


PS 

Questa sera e domani è Yom Hashoa secondo il calendario ebraico il ricordo dei sei milioni trucidati dalla società più evoluta e più intellettuale, perché l'uomo senza la Torà e Dio anche se è il più raffinato diventa peggio di una belva crudelissima.

Non a caso il conteggio di questa sera è MOLTO collegato con la disciplina dell'orrore nazista, che è una disciplina fasulla basata solo sull'ego, sull'odio e sulla gelosia.

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“Disegnare nella sabbia il periodo più orribile della storia ebraica è un privilegio misto a un grande dolore...” Dice Ilana Yahav, l’artista israeliana che lavora con la sabbia, che ci descrive con la sua arte questa tragica pagina della storia.

Da vedere:

https://youtu.be/9CZXD6EhLZ8

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